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TAPPI E TAPPETI

I

 

l tempo scorreva con una lentezza esasperante.
Accucciato nel mio nascondiglio dietro a quella roccia aspettavo che gli uomini portassero i loro cavalli e i loro fucili lontano da lì, e nell'attesa paure e fantasie si inseguivano nella mia mente cambiando continuamente forme e colori, come in un caleidoscopio; poi, quando una nuvola di polvere mi rivelò fragorosamente la loro partenza, ripresi finalmente a respirare, e con cautela mi diressi verso la montagna di fronte a me.
“ Apriti, sesamo! “ esclamai, e lentamente un varco si aprì nella roccia, rivelandomi una grotta luccicante, colma di forzieri traboccanti di monete d'oro e gioielli; con eccitazione mi guardai in giro alla ricerca dell'unico tesoro a cui fossi interessato, e vidi molte corone, ma nessun tappo corona...
Improvvisamente una mano si posò sulla mia spalla, facendomi sobbalzare: “ Prego, si svegli e allacci la cintura, stiamo per atterrare a Teheran!”

Faceva freddo.
Nella valigia avevo abiti per ogni stagione, visto che il lavoro a cui ero chiamato copriva una fascia di trecento chilometri, ma le mie conoscenze geografiche non mi avevano avvertito che Teheran era distesa su un altopiano a 1700 metri di quota, ed a novembre erano decisamente preferibili abiti polari.

La mattina del giorno dopo l'oscurità era ancora alta nel cielo, quando entrai nel taxi, destinazione Izeh, un villaggio “stranamente” escluso dai dépliant di tutte le agenzie turistiche, distante un paio di centinaia di chilometri dalla capitale.
Sulla carta...
Tentai di chiedere all'autista quanto sarebbe durato il viaggio, ma i suoni incomprensibili che uscirono dalle sue labbra non mi lasciarono dubbi: sarei rimasto col dubbio per tutto il tempo.
Fortunatamente l'auto, una Chevrolet Impala formato transatlantico, sembrava uscita da un film americano degli anni '60, ed accoglieva dignitosamente me e i tre miei valtellinesi compagni di viaggio che si dividevano il divano posteriore.
Costoro non erano di molte parole, cosicché, appena apparvero le prime luci del giorno, mi dedicai alla contemplazione del nuovo mondo che stavamo attraversando.
Nuovo per modo di dire, perché tutto intorno a me aveva un che di antico, ed il cielo nuvoloso tingeva ogni cosa con i colori di vecchie fotografie d'autore, ma era affascinante la scala di grigi che mi circondava, dal cielo plumbeo al bianco brillante delle cime innevate, per arrivare agli abiti spenti dei rari personaggi che incontravamo lungo quelle strade dimenticate.
Il tempo scorreva insieme alle montagne, abbandonato via via lungo le tortuose curve della ampia sede stradale.
Ero stupito dal gran numero di colonne di mezzi militari che incontravamo, sembrava di essere in un altro paese in guerra.
Presto cominciai a desiderare una sosta fisiologica: con una punta di trionfale soddisfazione riuscii a farmi intendere dal conducente, poi, mentre mi sgranchivo le gambe, i miei occhi setacciarono la zona ed adocchiarono eccitati i primi reperti tappologici.
Fra una sosta e l'altra, tornante dopo tornante, arrivò l'ora del pranzo, poi della cena, e mi resi conto che la specialità del posto era pollo con contorno di riso scondito, apparentemente senza alternative; accompagnato da una birra l'avrei comunque digerito, ma, in mancanza di una bionda, preferii dell'acqua naturale alle altre bibite sfuse proposte dalla casa.....
Quando finalmente, stravolti, arrivammo all'appartamento che la ditta aveva affittato, i nostri colleghi già sul posto stavano uscendo per recarsi al lavoro del nuovo giorno; mi feci indicare la mia branda e sprofondai entusiasticamente nel mio letargo ristoratore.

Anche questa volta il lavoro aveva a che fare con il petrolio: ero incaricato, insieme ad altri topografi e qualche operaio (quaranta persone in tutto) di eseguire rilevamenti da riportare poi su carta per studiare il tracciato di un oleodotto che partiva dai pozzi di Ahwaz sul golfo Persico, attraversava la catena dei monti Zagros (superando spesso quota tremila), per arrivare ad Isfahan dopo 350 movimentatissimi e disabitati chilometri.
I percorsi stradali erano molto accidentati, tanto che ognuno dei mezzi fuoristrada disponeva di un esperto autista capace di guidare su ogni terreno; ricordo ancora il vero terrore provato durante il guado di impetuosi torrenti, con l'acqua che arrivava a metà sportello e spingeva l'auto pericolosamente verso valle, fino all'approdo liberatorio sull'altra sponda dopo interminabili minuti...

Se qualcuno sta leggendo queste righe si starà chiedendo cosa tutto ciò abbia a che vedere con i tappi: in realtà non ne parlerò molto, e solo più avanti, perché i luoghi erano assai poco frequentati, e oltretutto la stagione non era la più propizia per le grandi bevute, così per diverso tempo la mia collezione non ebbe altri incrementi persiani.

Ma il racconto merita di soffermarsi sul paesaggio strabiliante dei luoghi che attraversavo, perché non avevo mai visto niente di più selvaggio; quasi assente la vegetazione, tranne qualche albero spoglio che punteggiava le sponde dei corsi d'acqua, ma quando il sole diffondeva la sua algida luce nell'aria purissima risaltavano incredibili scorci e antichi reperti che nessun libro di storia dell'arte, ingiustamente, consegnerà mai al mondo.

I ruderi diroccati che comparivano qua e là erano costruiti con terra e sassi del posto, come tutte le case tra quelle montagne, e si confondevano nel paesaggio senza violentarlo; anche per questo i pochi villaggi che si incontravano sembravano un po' tutti uguali, edificati lungo un torrente le cui rive erano costantemente frequentate da donne e bambine avvolte nei loro chador ed intente a lavare panni o stoviglie.
I loro volti tradivano la durezza della vita cui erano state destinate, ma la serenità che emanava il loro sguardo era la prova più evidente che la felicità, se esiste, non sta certo nelle false aspirazioni che ci propina la società “civile”; rimanevano a bocca aperta alla vista delle nostre facce strane e dei nostri abiti dai colori sconosciuti, e, senza mai smettere le loro faccende, ci accompagnavano con gli occhi finché non eravamo usciti dal loro campo visivo.
Poco lontano da ogni villaggio antichi leoni di pietra stilizzati erano posti a guardia dei luoghi in cui erano sepolti coloro che il tempo aveva già chiamato a sé, poi solo montagne spoglie, neve e silenzio.

Izeh fu la mia casa per un paio di mesi, e base di appoggio per il completamento dei lavori in quel tratto del futuro cantiere.
Era un grosso centro capoluogo di provincia, ma nella mia mente non ne è rimasto alcun ricordo; so solo che abitavamo in una piccola casa, troppo piccola per contenerci tutti; in compenso avevamo un cuoco del posto che parlava e cucinava italiano. Con lunghe partite di briscola a cinque si trascorrevano le serate in mancanza di alternative.

Non fu un dramma il mio distacco da quel luogo.
Tutt'altro!
La destinazione successiva era Isfahan, che i miei colleghi avevano descritto come un posto favoloso.

E decisamente favoloso fu il trasferimento: temevo di dover affrontare una nuova odissea lungo le strade del pollo con riso, invece mi comunicarono che sarei partito con l'elicottero che la ditta aveva noleggiato per il capo spedizione!
In un'ora e mezzo sorvolammo quei luoghi da presepio; rapito e senza respiro per lo scenario indimenticabile che scorreva nel vuoto sotto i miei piedi, seguivo con lo sguardo lo svolgersi serpeggiante dei limpidi torrenti che scivolavano laggiù incontro al loro destino.

Era quasi Natale.
Naturalmente le belle strade di Isfahan ignorarono l'avvenimento, ma comunque le splendide moschee della città sembravano addobbate per l'occasione, rivestite con mosaici dai colori preziosi e affascinanti, e si vedeva finalmente un po' di gente che di sera affollava con discrezione le vie del centro.
Il venerdì era la giornata festiva, e ne approfittavo per gironzolare alla ricerca di negozi di bibite (ricordo ancora con disgusto il sapore indescrivibile di uno yogurt acido acquistato per il bel tappo che sfoggiava), o visitando i bazar ricchissimi di profumi esotici e di innumerevoli tappeti i cui disegni ricordavano i mosaici delle moschee e avrebbero impreziosito il salotto di qualsiasi abitazione occidentale.
Di certo sarebbero stati perfetti per ospitare le partite di calciotappo che avrei giocato al mio rientro con i fratelli, ma il costo dei tappeti era troppo impegnativo per le mie tasche, anche considerando gli ostacoli doganali che avrei dovuto superare, così scelsi altri souvenir più economici che furono comunque molto apprezzati.

Non saprei dire se solo per colpa della stagione fredda, ma anche in quella meravigliosa città dominava una tristezza palpabile, come se per legge fosse stato bandito il divertimento.
Era l'anno 1395 del calendario sciita, ed erano gli ultimi anni dell'impero della Scià, prima che venisse rovesciato dalla rivoluzione di Khomeini.
Dubito che il cambio di regime possa aver prodotto in seguito un'atmosfera più gioiosa...
Eppure potei constatare che i mesti abiti delle donne locali nascondevano spesso minigonne di una certa audacia, e le segretarie del nostro ufficio, posato il chador sull'attaccapanni, erano disinvolte e gioviali come le giovani donne occidentali.

Il mio lavoro in Iran era quasi concluso, e nella valigia trovarono posto i tappi che avevo selezionato durante il mio soggiorno (una ventina) e avrei mostrato con orgoglio ai miei fratelli.
In fondo ero sicuro di essere l'unico collezionista ad aver raccolto tappi nel 1395…

Prima di ripartire mi fu chiesto di tornare a Izeh per un supplemento di lavoro di una settimana.
Ritrovai il cuoco, che una sera ci chiese un bilancio della nostra avventura, ed io gli espressi tutti gli entusiasmi e le malinconiche impressioni di cui ho scritto sopra, ma mi auguravo sinceramente di poter tornare a visitare l'Iran in una stagione più propizia.
Poi qualcuno lamentò che non si può vivere per quattro mesi senza vedere il viso di una donna e ciò rendeva negativo tutto il periodo trascorso, così il cuoco, per non lasciarci un brutto ricordo del suo paese, ci mostrò un nuovo lato della sua poliedrica professionalità: per ovviare a questo falso problema si offrì di farci incontrare una quindicenne divorziata.
Già, tanto la lapidazione non era prevista per gli uomini...
Declinammo l'offerta con frasi di circostanza, ma questa è un'altra storia, e sicuramente non interessa a quell'ipotetico lettore di cui sopra....

Nel frattempo avevo preso accordi per il mio prossimo lavoro, ma quei quattro mesi avevano duramente provato il mio fisico e la mia mente, e sentivo l'esigenza di un po' di riposo.
Aspettai la primavera prima di affrontare un nuovo deserto, ma il Sahara algerino era già al centro dei miei pensieri.

 

Lorenzo


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